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Dal Medioevo all’Età Moderna

Attorno all’anno 1000, le nobili famiglie dei Guidi e degli Adimari e l’antico Monastero di Sant’Ilario a Fiano donarono la prima porzione della Foresta di Sant’Antonio ai seguaci di Giovanni Gualberto, fondatore dell’Ordine Vallombrosano. L’appezzamento era allora composto da «cerri ed altri alberi» e «terre faggiate», come si legge nella donazione in favore dei monaci disposta dalla badessa di Sant’Ilario. La Foresta di San Antonio seguì dunque a lungo le vicende della più ampia foresta di Vallombrosa.

Nel 1586, i Vallombrosani istituirono un catasto forestale, grazie al quale si hanno oggi notizie più precise su quei terreni che avrebbero formato la Foresta di Sant’Antonio: il bosco era allora composto di cerri, roverelle, frassini e carpini. Vi erano poi moltissimi castagni, piante vitali per l’alimentazione umana ed animale. Nelle zone oltre i mille metri crescevano invece faggete pure, sebbene non così dense ed uniformi come le attuali, poiché l’allevamento del bestiame e la coltivazione di patate, segale e grano richiedevano radure e pascoli. L’abete, al contrario, non era molto diffuso prima del XVII secolo, e solo quando, alla metà del secolo, il suo commercio divenne redditizio, i monaci ne estesero la coltivazione, soprattutto nella zona settentrionale della foresta di Vallombrosa. Le faggete di Sant’Antonio furono invece trascurate, perché meno economicamente rilevanti.

Quando nel 1789 il Granduca ordinò il censimento di tutte le proprietà ecclesiastiche, le foreste di proprietà dell’Abbazia di Vallombrosa si estendevano per 840 ettari, inclusi i 198 di Sant’Antonio. Con l’annessione del Granducato al Regno di Sardegna e l’entrata in vigore delle leggi sabaude, tutti i beni del monastero furono trasferiti alla Direzione Generale del Demanio, e furono istituiti e resi inalienabili i demani forestali. A questo periodo risalgono le migliorie nelle fustaie di abete bianco e l’introduzione dell’abete rosso, del larice, del pino silvestre e del laricio.

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